Sull’esposizione del crocifisso e la posizione del docente dissenziente. di Cosimo Calabrò
Cass. Civile, Sezione Lavoro, Ordinanza n. 19618 del 18.09.2020
Connessione tra simboli religiosi e libertà d’insegnamento – Discriminazione indiretta derivante dall’ordine di servizio – Contemperamento tra libertà d’insegnamento e rispetto della coscienza morale degli alunni
Può il docente rimuovere temporaneamente il crocifisso dalla parete dell’aula, se la sua esposizione è stata voluta dagli studenti e ordinata dal dirigente? Un ordine di servizio con tale contenuto è discriminatorio nei confronti del docente? Secondo la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, è auspicabile un intervento delle Sezioni Unite.
Certo è che il tema dell’ostensione del crocifisso nelle aule scolastiche ritorna periodicamente a impegnare la Corte, cui è richiesto di affrontare di volta in volta la questione sotto profili nuovi, guardandola dai punti di vista dei molteplici soggetti che, nella vita di tutti i giorni e lontano dalle astrattezze dei principi giuridici e del loro delicato contemperamento, si chiedono quali siano, in concreto, i comportamenti da osservare nelle istituzioni e negli ambienti pubblici.
Si ricorderà, in proposito, il duro dibattito che occupò l’opinione pubblica a seguito della Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 3 novembre 2009 (caso Lautsi c. Italia), la quale sancì in prima istanza la violazione da parte dello Stato italiano dell’art. 2[1] del Protocollo Addizionale n. 1 esaminato congiuntamente all’art. 9[2] della Convenzione. Sappiamo che la decisione fu poi riesaminata dalla Grande Camera che, con la Sentenza del 18 marzo 2011, espresse l’opinione opposta, sostenendo che nessuna violazione vi era stata e che l’ostensione del crocifisso rientrava “entro i limiti del potere discrezionale di cui dispone lo Stato convenuto nell’ambito del suo obbligo di rispettare, nell’esercizio delle funzioni che esso assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento, il diritto dei genitori ad assicurare questa educazione e questo insegnamento in conformità alle loro convinzioni religiose e filosofiche”[3], e ciò in virtù del fatto che il crocifisso, benché abbia un valore intrinsecamente religioso, è un simbolo essenzialmente passivo e “non gli si può attribuire una influenza sugli allievi paragonabile a quella che può avere un discorso didattico o la partecipazione ad attività religiose”[4].
Tuttavia quel giudizio scaturiva da una richiesta di tutela da parte dell’alunno (e della sua famiglia), ovvero “l’utente del servizio”, e non dal soggetto chiamato a svolgere la funzione educativa, come ha sottolineato la Corte di Cassazione nel caso che interessa.
L’Ordinanza in commento riguarda, invece, la posizione di un dipendente pubblico, docente in una scuola secondaria di secondo grado, il quale aveva assunto l’iniziativa di rimuovere temporaneamente il crocifisso dalla parete dell’aula per la durata della propria lezione, contravvenendo però con tale comportamento a un ordine di servizio del dirigente, che aveva ordinato a tutto il personale di attenersi alla delibera dell’assemblea degli studenti, i quali avevano manifestato appunto la volontà che il crocifisso rimanesse affisso durante le lezioni.
La Sezione Lavoro della Corte non si accontenta delle ragioni espresse dai giudici del merito, che, richiamando alcuni dei principi enunciati dalla Corte EDU nella sentenza del 18 marzo 2011 citata, avevano dichiarato che l’ordine del dirigente non fosse discriminatorio, che l’esposizione del crocifisso non fosse limitativa della libertà di insegnamento e che il dipendente non avesse titolo a dolersi dell’asserita violazione del principio di buon andamento e imparzialità della Pubblica Amministrazione, nonché di quello di laicità dello Stato, “perché gli stessi danno origine, non a diritti soggettivi dei singoli, bensì a interessi diffusi”.
Ritiene invece la Corte che la fattispecie presenti problemi che non coincidono esattamente con quelli già discussi dai Giudici di Strasburgo e individua ulteriori “questioni di massima che il Collegio ritiene essere di particolare rilevanza”, sulle quali auspica un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite[5]. Effettivamente, i problemi esposti dalla Corte sono molteplici e diversi da quelli sui quali i Giudici si sono soffermati in passato, a conferma del fatto che il tema è estremamente complesso e che la ricerca del delicato equilibrio tra i principi coinvolti non ha ancora trovato una conclusione convincente e completa.
L’attenzione viene qui indirizzata verso due tematiche principali: l’una, più generale, circa la possibilità che l’ostensione del simbolo religioso possa determinare una discriminazione indiretta nei confronti del soggetto chiamato a esercitare la funzione pubblica; l’altra, specificamente attinente al mondo dell’istruzione, in merito al bilanciamento tra due interessi costituzionalmente protetti quali la libertà d’insegnamento e il rispetto della coscienza civile e morale degli alunni, declinati rispettivamente dagli artt. 1 e 2 della L. n. 297/1994.
Il primo dei due aspetti costituisce il nodo centrale della pronuncia ed è trattato facendo espresso richiamo alla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea in tema di discriminazione dei lavoratori.
Il riferimento è alla sentenza della Grande Sezione della Corte di Giustizia del 14 marzo 2017 (causa C-157/15), in cui si è discusso “sull’interpretazione dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro”, in relazione al divieto imposto ai propri dipendenti da una società privata belga, di indossare sul luogo di lavoro segni visibili delle loro convinzioni politiche, filosofiche o religiose e di compiere qualsiasi rituale che derivi da tali convinzioni[6].
La pronuncia citata si interroga sulla possibilità che una norma interna (nel caso specifico un ordine del datore di lavoro privato), benché non costituisca una discriminazione diretta perché rivolta a tutti i lavoratori occupati nell’azienda, possa però dare luogo a una discriminazione indiretta “qualora venga dimostrato che l’obbligo apparentemente neutro da essa previsto comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia, a meno che esso sia oggettivamente giustificato da una finalità legittima”.
Sulla scorta di questa considerazione, la Corte di Cassazione si chiede innanzitutto quale sia il significato da attribuire al crocifisso e quale sia la connessione che lo lega allo svolgimento della funzione di docenza e al docente stesso, sostenendo che “in questo caso viene in rilievo il valore del simbolo in relazione non all’utente del servizio bensì al soggetto che è chiamato a svolgere la funzione educativa, di tal ché si potrebbe dubitare dell’asserito “ruolo passivo” qualora all’esposizione del simbolo si attribuisse il significato di evidenziare uno stretto collegamento fra la funzione esercitata ed i valori fondanti il credo religioso che quel simbolo richiama”.
In altre parole, se nei confronti degli studenti il crocifisso è un simbolo inidoneo a influire sulla loro coscienza morale, cosicché non viene intaccata la necessaria neutralità dello Stato in materia religiosa, può dirsi lo stesso per il docente chiamato a svolgere la funzione educativa?
Il timore espresso dal Collegio è che il docente senta di esercitare la propria funzione pubblica sotto la protezione simbolica del crocifisso e in nome di valori cattolici che non gli appartengono. Qualora venisse valorizzata tale connessione, ci si dovrebbe allora interrogare sulla configurabilità di una discriminazione indiretta a danno dell’insegnante aderente a un diverso credo, il quale “si vede costretto a svolgere l’attività di insegnamento in nome di valori non condivisi, con conseguente lesione di quella libertà di coscienza che il datore di lavoro è tenuto a salvaguardare”.
Dare una risposta affermativa al quesito avrebbe la conseguenza di aprire una serie di ulteriori questioni altrettanto delicate, dal momento che si determinerebbe l’esistenza di un interesse giuridicamente rilevante e meritevole di tutela in capo al docente (la sua libertà di insegnamento svincolata dai valori cattolici rappresentati dal crocifisso), posto in contrapposizione con l’esigenza di rispettare la coscienza civile e morale degli alunni, che hanno voluto (e votato a maggioranza) l’apposizione del crocifisso alla parete dell’aula[7].
Si tratterebbe allora di ricercare il giusto contemperamento tra le due esigenze, entrambe espressamente garantite dallo Stato agli artt. 1[8] e 2[9] del D.Lgs. n. 297/1994. Infatti, la piena tutela dell’interesse manifestato dal docente comporterebbe la rimozione del simbolo religioso, vanificando la richiesta degli studenti e viceversa.
Nel tentativo di cercare una soluzione, la Corte evidenzia l’esistenza di due possibili scenari.
Da un lato, ipotizza che possa essere adottato un principio di autoregolamentazione da parte della comunità scolastica, secondo il quale le decisioni di questo tipo vengano adottate in conformità alla volontà della maggioranza dei soggetti che vi partecipano. In questo senso, dovrebbe allora prevalere la delibera assembleare degli studenti rispetto all’interesse del docente.
La tesi è sostenuta da un certo orientamento della giurisprudenza amministrativa (viene citato in proposito il TAR Brescia con la Sentenza n. 603/2006) che, per dirlo con le parole della Corte, “in ragione delle caratteristiche proprie della comunità scolastica, ha ritenuto di dover valorizzare, quanto all’esposizione dei simboli religiosi, la volontà espressa dalla maggioranza degli alunni, dei genitori e del personale docente”. Inoltre, coincide anche con la soluzione adottata in altri ordinamenti europei. Il rimando va alla Legge Bavarese sull’educazione del 23.12.1995, che, ferma la previsione dell’esposizione del crocifisso nelle aule, valorizza tuttavia la libera determinazione delle autonomie scolastiche, prescrivendo, nel caso venga sollevata qualche rimostranza avverso tale esposizione, l’intervento del dirigente, al quale tocca il compito di cercare ove possibile una soluzione negoziale e, se il tentativo fallisce, deve trovare una regola ad hoc che contemperi gli opposti interessi, pur tenendo conto della volontà maggioritaria[10].
Certo, la soluzione bavarese sembra di difficile attuazione se calata nel nostro sistema: il malcapitato dirigente scolastico chiamato a dirimere un conflitto di questa portata si vedrebbe costretto ad assumere una decisione, con le relative responsabilità, sulla medesima questione che oggi la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione intende devolvere alle Sezioni Unite.
Dall’altro lato, la Corte evidenzia anche che la scelta di far prevalere la volontà della maggioranza “finisce per porsi in contrasto con i principi affermati dalla Corte costituzionale[11], la quale secondo cui in materia di religione nessun rilievo può essere attribuito al criterio quantitativo”.
In attesa e nell’augurio che si possa fare chiarezza sul punto, l’Ordinanza in commento ricorda che la ricerca del contemperamento tra i due principi confliggenti, e di conseguenza la soluzione concreta che dovrà essere adottata all’interno dell’istituto scolastico, deve superare il vaglio circa l’adeguatezza del mezzo utilizzato rispetto alla finalità perseguita: un principio strettamente connesso, se non coincidente, con quello di proporzionalità, che già davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo era stato suggerito quale criterio guida dai Giudici Rozakis e Vajic, nel caso trattato nella citata Sentenza della Grande Camera, discutendo del contemperamento “tra il diritto dei genitori di assicurare l’educazione e l’insegnamento dei loro figli conformemente alle loro convinzioni religiose e filosofiche da un lato e, dall’altro, il diritto o l’interesse di una larga parte – per lo meno – della società ad esporre dei simboli religiosi che manifestano una religione o una convinzione”[12].
Non è escluso, secondo la Corte, che la sintesi del problema vada individuata in una soluzione mediata, in modo non così dissimile dalla soluzione negoziale sostenuta dalla Legge Bavarese cui si è fatto cenno, e che essa possa coincidere con la rimozione temporanea del crocifisso per la durata della lezione del docente portatore dell’interesse contrapposto: curiosamente, proprio il comportamento che il ricorrente ha assunto in via autonoma nella fattispecie in esame.
Si osservi che tutte le questioni elencate finora (e altre ancora[13]) si porrebbero soltanto in caso di risposta affermativa al primo dei quesiti presentati, ovvero se l’ordine di servizio del dirigente che impone l’affissione del crocifisso ponga il docente aderente a una diversa convinzione religiosa[14] in posizione di svantaggio rispetto agli altri dipendenti e si qualifichi come indirettamente discriminatorio, nel senso spiegato dalla Corte di Giustizia nella decisione cui si è accennato.
Non resta che attendere, quindi, un eventuale intervento chiarificatore delle Sezioni Unite che ci spieghi se i timori espressi nell’Ordinanza della Sezione Lavoro siano fondati o se, invece, anche in relazione all’esercizio della funzione educativa valgano le conclusioni esposte dalla Corte EDU circa il valore di simbolo passivo del crocifisso, la cui esposizione è stata finora giustificata dalla visibilità preponderante che lo Stato italiano accorda alla religione cattolica per ragioni storiche e culturali.
Avv. Cosimo Calabrò – Foro di Pordenone
[1] « Il diritto all’istruzione non può essere rifiutato a nessuno. Lo Stato, nell’esercizio delle funzioni che assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento, deve rispettare il diritto dei genitori di provvedere a tale educazione e a tale insegnamento secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche. »
[2] « 1. Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti.
2. La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e della libertà altrui.»
[3] Sent. cit., Par. 76.
[4] Sent. cit., Par. 72.
[5] Già un primo intervento delle Sezioni Unite si ebbe con la Sentenza n. 5924/2011, pronunciata a seguito di regolamento di giurisdizione, in relazione alla pretesa di un magistrato di far rimuovere il crocifisso da tutte le aule dell’ufficio giudiziario, nonostante gli fosse stata messa a disposizione un’aula priva del simbolo religioso. Anche rispetto a tale precedente, la diversità dell’oggetto del giudizio ha condotto la Sezione Lavoro a escludere la possibilità di applicare in modo automatico i principi espressi in quella sede.
[6] La conclusione cui giunse la Corte di Giustizia in quel caso fu il seguente:
“L’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che il divieto di indossare un velo islamico, derivante da una norma interna di un’impresa privata che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali ai sensi di tale direttiva.
Siffatta norma interna di un’impresa privata può invece costituire una discriminazione indiretta ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78, qualora venga dimostrato che l’obbligo apparentemente neutro da essa previsto comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia, a meno che esso sia oggettivamente giustificato da una finalità legittima, come il perseguimento, da parte del datore di lavoro, di una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei rapporti con i clienti, e che i mezzi impiegati per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari, circostanza, questa, che spetta al giudice del rinvio verificare.”
[7] Il presupposto di fatto fondamentale è che, come si è detto, il mantenimento del crocifisso nell’aula era stato deciso in primo luogo dall’assemblea degli studenti e solo successivamente è intervenuto l’ordine del dirigente, rivolto alla generalità del personale dipendente, di rispettare la volontà assembleare.
[8] “Art. 1 – Formazione della personalità degli alunni e libertà di insegnamento
1. Nel rispetto delle norme costituzionali e degli ordinamenti della scuola stabiliti dal presente testo unico, ai docenti è garantita la libertà di insegnamento intesa come autonomia didattica e come libera espressione culturale del docente.
2. L’esercizio di tale libertà è diretto a promuovere, attraverso un confronto aperto di posizioni culturali, la piena formazione della personalità degli alunni.
3. E’ garantita l’autonomia professionale nello svolgimento dell’attività didattica, scientifica e di ricerca.”
[9] “Art. 2 – Tutela della libertà di coscienza degli alunni e diritto allo studio
1. L’azione di promozione di cui all’articolo 1 è attuata nel rispetto della coscienza morale e civile degli alunni.
2. A favore degli alunni sono attuate iniziative dirette a garantire il diritto allo studio.”
[10] Il riferimento è all’art. 7 della Legge Bavarese sull’Educazione del 23.12.1995
[11] Si veda, in particolare: Corte Cost. n. 440/1995 richiamata da Corte Cost. n. 329/1997
[12] Si veda l’Opinione concordante del Giudice Rozakis, alla quale aderisce il Giudice Vajic, allegata alla Sentenza della Grande Camera della Corte EDU del 18.03.2011 (Lautsi e altri c. Italia).
[13] Si pensi alla possibilità del docente di disobbedire all’ordine del dirigente, attuando una forma di autotutela: facoltà che la Corte d’Appello ha escluso nella fattispecie in esame, avendo qualificato la posizione soggettiva del docente come mero interesse e ritenendo che il diritto all’autotutela valga solo in relazione a diritti soggettivi inviolabili.
[14] Purché le sue ragioni raggiungano il “livello di forza, di serietà, di coerenza e di importanza” richiesti affinché si tratti di “convinzioni” ai sensi degli articoli 9 della Convenzione e 2 del Protocollo n° 1.