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L’interpretazione dei principi del diritto comunitario come vincolo conformativo dell’attività discrezionale della pubblica amministrazione. Commento a Cons. Stato sez. VI sent. nn. 6073/2020 e 6119/2020 del 12 ottobre 2020 di Anna Chiara Vimborsati

TITOLI DI STUDIO ABILITANTI CONSEGUITI ALL’ESTERO – PROCEDIMENTO DI RICONOSCIMENTO

Commento alle Sentenze Cons. Stato sez. VI nn. 6073/2020 e 6119/2020 del 12 ottobre 2020.

L’interpretazione dei principi del diritto comunitario come vincolo conformativo dell’attività discrezionale della pubblica amministrazione

Le sentenze in commento segnano una decisiva svolta sulla posizione assunta dal Supremo Consesso Amministrativo in mero al contenzioso originato dal rigetto da parte del Ministero dell’Istruzione dei titoli di studio abilitanti all’insegnamento conseguiti all’estero e segnatamente in Romania nella misura in cui “costringono” l’esecuzione della sentenza nei limiti delle determinazioni contenute negli obiter dictum della motivazione.

Sebbene, infatti, le pronunce in punto di diritto si pongano nel solco dell’orientamento già tracciato dalla VI sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato rispetto alla declaratoria di illegittimità dei decreti di rigetto delle istanze di riconoscimento dei titoli conseguiti in Romania certificati mediante la produzione di attestazioni di idoneità all’insegnamento nello stato che le abbia rilasciate, così come cristallizzate nell’arresto di cui alla sentenze nn. 1198 e 4825 del 2020, le pronunce risultano innovative nella parte in cui la declaratoria di illegittimità degli atti impugnati si fonda sull’esito di un sindacato giurisdizionale esercitato in termini di accertamento della effettiva conformità dei titoli rumeni sulla scorta della normativa europea e in relazione al necessitato esito dei relativi procedimenti amministrativi di riconoscimento dei titoli condotti nell’ambito dell’ordinamento giuridico italiano.

Tale definitivo accertamento che postula il valore abilitante dei titoli conseguiti censura, invero, la discrezionalità dell’amministrazione resistente costretta alla mera esecuzione del giudicato della sentenza manifestando la straordinaria capacità, propria del metodo teleologico-funzionale proprio della giurisdizione amministrativa, di coniugarsi quale giurisdizione degli interessi in un contesto recettivo delle istanze proprie di un sistema multilivello ed europeo in particolare, creativa di principi che si impongono all’amministrazione con le caratteristiche proprie di un “formante” dell’ordinamento giuridico.

Le decisioni, infatti, delineano un sistematico inquadramento della disciplina del riconoscimento dei titoli conseguiti all’estero nell’ordinamento giuridico italiano così come disciplinata dal D. Lgs. 206/2007 e per l’effetto degli organi competenti a disporne il riconoscimento in una prospettiva sostanzialistica che valorizza il contenuto delle competenze acquisite sulla scorta, da un lato, dei principi consolidati nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’UE e, dall’altro, dalla conformazione del potere amministrativo di riconoscimento, di per sé soggetto agli obblighi generali di motivazione degli atti amministrativi alla garanzia di partecipazione dei procedimenti amministrativi in relazione agli interessi legittimi nascenti dall’obbligo di osservanza del diritto europeo che si impongono anche alla pubblica amministrazione.

Le decisioni in commento, infatti, compiono una complessa impresa interpretativa delle disposizioni di diritto comunitario con funzioni simili a quelle di cui all’art. 134 TUE muovendosi nell’alveo di disposizioni normative che disciplinano un procedimento amministrativo (D. Lgs. 206/2007) con una tecnica interpretativa che senza sfociare nella verifica della conformità del diritto italiano al diritto comunitario enuclea e impone all’amministrazione di vincolarsi principi del diritto comunitario, sulla scorta del “riconoscimento” di tali valori nella stessa normativa propria dell’ordinamento giuridico italiano che come tale si impone all’amministrazione a garanzia dell’efficacia intra-sistemica dei principi del diritto comunitario enucleati attraverso l’attività interpretativa della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Senza esorbitare dall’ambito delle proprie funzioni, il giudice amministrativo razionalizza i principi desunti dalla giurisprudenza comunitaria “identificando” gli interessi sottesi alla loro formulazione al fine di orientare l’attività della pubblica amministrazione orientandola alla tutela degli obiettivi comunitari nell’esercizio della propria attività di comparazione degli interessi pubblici attraverso una tecnica interpretativa che apparentemente si limita a rinvenire gli interessi prevalenti nella normativa di diritto interno.

La “primauté” del diritto comunitario si afferma, invece, attraverso la selezione degli interessi “prevalenti” compiuta dalla giurisprudenza amministrativa mediante un inquadramento giuridico della normativa vigente che sintetizza gli esiti di una necessaria conformità del diritto degli Stati membri al diritto comunitario.

La tecnica redazionale utilizzata dal Consiglio di Stato manifesta la consolidata abitudine della giurisdizione amministrativa a confrontarsi con i principi del diritto comunitario che, nel caso di specie, si realizza attraverso una ponderazione degli interessi sottesi al diritto comunitario che devono orientare l’esito dell’attività procedimentale amministrativa nell’ambito del diritto interno finalizzandola alla salvaguardia ed alla tutela dell’interesse alla legittimità dell’atto amministrativo conforme al diritto comunitario conferendo una diretta e concreta efficacia “amministrativa” ai principi del diritto comunitario che  condiziona, dunque, il contenuto dell’iter procedimentale strumentalmente scelto dallo Stato italiano per garantire l’adempimento dei principi e delle finalità proprie dell’ordinamento comunitario.

SULL’INQUADRAMENTO DELLA FATTISPECIE.

Le questioni decise sono originate dalle istanze di docenti che, dopo aver conseguito presso l’Università italiana il diploma di laurea, hanno frequentato un corso post-universitario presso un’Università rumena, ovvero di uno Stato appartenente all’Unione Europea, al fine di conseguire il titolo di abilitazione all’insegnamento.

In Romania, infatti, la legislazione condiziona l’inquadramento del personale scolastico quale personale didattico qualificato, al compimento di alcuni moduli psicopedagogici, così che:

-i laureati che abbiano maturato un minimo di trenta crediti trasferibili nel programma formazione psicopedagogica (con tirocinio effettuato in Romania come richiesto dal Miur per ottenere la riconversione dell’abilitazione acquisita all’estero) ottengono il certificato del compimento del I livello di studi, il quale gli conferisce il diritto di ricoprire incarichi didattici nell’istruzione pre-universitaria obbligatoria (prescolastica, primaria e ginnasiale);

-i laureati del programmi di studi psicopedagogici (con tirocinio effettuato in Romania, come richiesto dal Miur per ottenere la riconversione dell’abilitazione acquisita all’estero) che abbiano accumulato un minimo di 60 crediti trasferibili ottengono il certificato di II livello di studi per mezzo del quale s ottiene il diritto di ricoprire incarichi didattici nell’istruzione liceale, post-liceale e superiore

Il Ministero dell’Istruzione rumeno, ritenendo idonei i titoli di laurea in possesso dei docenti e accertato le loro competenze linguistiche, li ha ammesio a frequentare due corsi di cicli post-universitari D.P.P.D., PROGRAMMA DI FORMAZIONE PSICOPADAGOGICA (Nivel 1 e Nivel 2), dedicati alla formazione del personale didattico (c.d. iter abilitante) presso le Università rumene.

In Romania, infatti, il superamento del Nivel I e Nivel 2 dei D.P.P.D. di formazione psico-pedagogica, condizionando l’inquadramento nell’istruzione come personale didattico qualificato dei docenti e conferisce il diritto di ricoprire ruoli di insegnamento (posti didattici) nell’istruzione preuniversitaria obbligatoria e precisamente:

-il superamento di trenta crediti formativi riferiti al Nivel 1 conferisce il diritto di occupare un posto didattico nell’istruzione pre-scolastica primaria e ginnasiale (cioè fini alla scuola secondaria di primo grado, ovvero sino al compimento del quattordicesimo anno di età);

-il superamento di trenta crediti formativi riferiti al Nivel;

Crediti formativi per il contestuale accertamento, ai conferisce il diritto di insegnare nell’istruzione liceale, post-liceale e superiore, cioè nella scuola secondaria di secondo grado, fino al compimento del diciottesimo anno di età.

I docenti, avendo dato atto di aver completato il percorso predetto e di aver ottenuto il certificato di Abilitazione dal Ministero dell’Educazione rumeno, il c.d. “Adeverinta” sono risultati in possesso del titolo richiesto dalla Direttiva 2005/36/CE e dei requisiti idonei ad ottenere il riconoscimento in Italia dell’abilitazione conseguita all’estero, proponendo apposita istanza finalizzata al rilascio del decreto di riconoscimento.

La Direttiva 2005/36/CE, recepita nell’ordinamento giuridico italiano per mezzo del D.Lgs. 206/2007 consente, infatti, ai soggetti che ne abbiano interesse e che siano in possesso dei prescritti requisiti comunitari, di richiedere ed ottenere il riconoscimento del  dei propri titoli ottenuti in altro Paese dell’UE.

Tali istanze, tuttavia, sono state denegate per mezzo di decreti di rigetto nelle quali la Direzione Generale del Ministero dell’Istruzione ha ritenuto sussistere un difetto dei requisiti di legittimazione al riconoscimento dei titoli, ai sensi della Direttiva 2013/55/UE, per l’esercizio della professione docente, conseguiti in paese appartenente all’Unione Europea, Romania nel caso di specie motivando che L’art. 13, comma 1 e 3, della Direttiva comunitaria 2013/55/UE disciplina l’accesso alla professione regolamentata comunicando che “la tipologia di formazione professionale … documentata viene considerata dall’Autorità competente rumena condizione necessaria ma non sufficiente al rilascio dell’attestazione di conformità da parte dell’autorità competente del medesimo Stato membro, come disposto dalla citata Direttiva europea” rimandando a tal proposito, all’Avviso prot. n. 5636 del 2 aprile 2019 nel quale sono forniti chiarimenti anche sulle richieste di riconoscimento dei titoli di specializzazione per il sostegno e sulla mancata corrispondenza tra l’ordinamento scolastico rumeno nel quale il suddetto insegnamento rientra nell’ambito di insegnamento speciale in apposite scuole  speciali e l’ordinamento italiano in cui è previsto che tale insegnamento sia svolto nelle classi comuni con il supporto dell’insegnante di sostegno.

Il  decreto legislativo n. 206 del 2007 disciplina l’attuazione della direttiva 2005/ 36/CE relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali nonché della direttiva 2006/100/CE, che adegua determinate direttive sulla libera circolazione delle persone a seguito dell’adesione di Bulgaria e Romania.

Per quanto riguarda il riconoscimento dei titoli per l’esercizio della professione docente, la normativa prevede che il riconoscimento possa essere richiesto « per gli insegnamenti per i quali l’interessato sia legalmente abilitato nel Paese che ha rilasciato il titolo ed a condizione che tali insegnamenti trovino corrispondenza nell’ordinamento scolastico italiano».

Il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca è l’organo deputato ne sistema ordina mentale giuridico italiano a valutare l’accoglimento o meno dell’istanza di riconoscimento dopo aver verificato la corrispondenza e la correttezza del percorso di formazione frequentato in altro Stato.

LA DIRETTIVA 2005/36/CE  riconosce in modo chiaro e incondizionato l’obbligo incombente sugli Stati membri in materia di reciproco riconoscimento dei titoli di studio acquisiti nei paesi dell’UE.

Dispone infatti che (10) “la presente direttiva non esclude la possibilità per gli Stati membri di riconoscere, secondo la propria regolamentazione, qualifiche professionali acquisite da un cittadino di un paese terzo al di fuori del territorio dell’Unione europea. In ogni caso il riconoscimento dovrebbe avvenire nel rispetto delle condizioni minime di formazione per talune professioni”.

Ed ancora che (14) “Il meccanismo di riconoscimento stabilito dalle direttive 89/48/CEE e 92/51/CEE rimane immutato. Di conseguenza, il titolare di un diploma che certifichi il compimento di un corso di formazione a livello post secondario di una durata di almeno un anno dovrebbe avere accesso a una professione regolamentata in uno Stato membro in cui l’accesso è subordinato al possesso di un diploma che certifichi il compimento di un corso di studi universitario o equivalente della durata di quattro anni, a prescindere dal livello del diploma richiesto nello Stato membro ospitante.

IL RICONOSCIMENTO DEI TITOLI DI STUDIO CONSEGUITI ALL’ESTERO.

Sulla scorta di tali disposizioni normative, il riconoscimento del D.P.P.D. da parte del Ministero dell’Istruzione doveva essere rilasciato all’esito della sola verifica della completezza della documentazione presentata dall’istante, docente, interessato.

Tuttavia, il Miur (Oggi MI) ha ritenuto che relativamente alla professione docente il meccanismo di riconoscimento dei tutoli non fosse quello automatico ma quello generale: tale meccanismo avrebbe, tuttavia, imposto Ministero di analizzare comparativamente i percorsi formativi svolti nei due Stati membri coinvolti sicché il procedimento amministrativo instaurato dall’istanza di riconoscimento del titolo ai sensi e per gli effetti delle disposizioni di cui al D. Lgs. 206/2007 avrebbe dovuto concretarsi in un’analisi comparativa del percorso di formazione conseguito nel paese estero al fine di accertare, in ogni caso, il valore da attribuire al titolo acquisito nel paese membro dell’UE nel senso del riconoscimento quale titolo idoneo allo svolgimento della professione regolamentata, ovvero della non idoneità con la contestuale indicazione della misura compensativa necessaria ad integrare i requisiti mancanti a tal fine.

Un procedimento, dunque, da condursi mediante un’attività istruttoria oggettivamente accertabile dalle cui risultanze derivi, in via consequenziale, l’adozione del provvedimento finale.

Il Ministero, invece, ha adottato i provvedimenti di rigetto in assenza di qualsivoglia attività istruttoria vanificando l’intento sotteso alla procedura di cui al D. lgs. 206/2007 ovvero i principi di cui alla direttiva 2005/36/CE sulla libera circolazione delle persone atteso che in tal caso nessun valore è riconosciuto al titolo certamente conseguito in uno Stato membro dell’Unione Europea ed in tal senso si sono mostrati carenti di motivazione per omessa motivazione sia ai sensi della legge 241/1990, sia ai sensi delle disposizioni di cui agli artt. 1, 1 bis e 3 del D Lgs. 206/2007.

IL VALORE DELLE CERTIFICAZIONI RUMENE.

Il M.I.U.R., al fine di emettere il provvedimento finale di riconoscimento dell’abilitazione all’esercizio della professione, a seguito di una dettagliata analisi e comparazione del percorso formativo seguito, si è limitato a prendere atto della dichiarazione di conformità alla direttiva rilasciata dal paese membro d’origine e cioè dall’autorità competente nel territorio straniero in cui è stata conseguita l’abilitazione all’insegnamento.

L’autorità competente al rilascio di tale attestato in Romania è il Ministero dell’Istruzione che rilascia due tipologie di attestazioni:nello specifico un primo certificato che viene rilasciato esclusivamente a quei cittadini che hanno conseguito il titolo di laurea/master in Romania ed un secondo certificato per tutti quei cittadini che hanno conseguito il titolo di laurea/master all’estero, comunque obbligatoriamente riconosciuto ed omologato in Romania dalle autorità competente (CNREDi).

Si tratta, dunque, di due differenti percorsi che comunque rimangono inquadrati all’interno della Direttiva e che scaturiscono dal fatto che in Romania il titolo di laurea è abilitante, mentre negli altri stati membri, non tutti i titoli sono abilitanti. Prova certa di quanto appena espresso, è dato dal fatto che in Romania insegnano docenti italiani che hanno conseguito il titolo di laurea in Italia e che una volta trasferitisi hanno omologato e riconosciuto il loro titolo di laurea presso il CNRED, effettuato il corso di psicopedagogia di livello 1 e 2 e solo dopo, hanno ottenuto il diritto all’insegnamento, come riportato nella certificazione del titolo rilasciata dalle autorità rumene, denominata “Adeverinta”.

 Secondo la normativa rumena, infatti, “il certificato di conformità agli studi con le disposizioni della Direttiva 2005/36/CE relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali può essere richiesto da laureati che hanno completato in Romania degli studi attestanti il possesso di qualifiche professionali, raggruppate ai livelli descritti dall’art. 11 della Direttiva 2005/36/CE; il Ministero dell’Educazione Nazionale rilascia il suddetto certificato nel rigoroso rispetto delle disposizioni metodologiche vigenti, sulla base della domanda di cui all’allegato  e del dossier contenente i documenti previsti dall’art. 3 della Metodologia per il rilascio del certificato di conformità degli studi con le disposizioni della Direttiva 2005/36/CE relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali e del certificato per la certificazione delle competenze per la professione didattica, per i cittadini che hanno studiato in Romania, per svolgere l’attività didattica all’estero, approvata con O.M.E.N.C.S. no. 5414/2016.

L’inquadramento di un Diploma/Master in uno del livelli di cui alla Direttiva 2005/36/CE viene effettuato esclusivamente dalle autorità competenti dello Stato d’origine del rispettivo atto di studi (art. 16 OMEN nr. 3850/2017) e sempre un organo statale (centralizzatore) relativamente programmi di formazione psicopedagogica I/II livello, definisce la corrispondenza tra le aree degli studi universitari superati e le discipline che possono essere insegnate nell’istruzione secondaria superiore.

Per gli studi universitari che non sono stati superati in Romania, la corrispondenza viene effettuata in base all’attestato di riconoscimento rilasciato dal centro nazionale di riconoscimento ed equipollenza dei diplomi che consente l’accesso alla professione docente sicché il docente laureato in Italia che abbia seguito e superato programmi di formazione psicopedagogica i/ii livello può lavorare in Romania in qualità di docente qualificato sicché le certificazioni rilasciate dal ministero rumeno costituiscono condizione necessaria e sufficiente per l’accesso all’impiego di docente condizione di accesso ai concorsi pubblici nazionali per l’insegnamento nella scuola secondaria superiore proprio ai sensi della direttiva 55/2013/UE, che consente la libera circolazione delle professioni e non solo la frequenza di un percorso formativo in Romania.

L’AVVISO MIUR

Per mezzo dell’avviso N. 5636 DEL 2/4/2019 ilMiur ha invece ritenuto che i titoli conseguiti in Romania non potessero essere riconosciuti come validi in Italia in quanto la formazione conseguita in Romania viene considerata dall’Autorità competente rumena condizione necessaria ma non sufficiente al rilascio dell’attestazione di conformità da parte dell’autorità competente del medesimo Stato membro, come disposto dalla citata Direttiva europea.

IL CONTESTO NORMATIVO ITALIANO.

Il provvedimento di recepimento della direttiva, il decreto legislativo 9 novembre 2007, n. 206, ha sostituito, abrogando in tutto o in parte, la normativa nazionale che regolava la materia dei riconoscimenti professionali.

La definizione di professioni “regolamentate” è fornita – insieme alle altre previste del provvedimento – dall’art. 4 del citato decreto: 1) l’attività,o l’insieme delle attività, il cui esercizio è consentito solo a seguito di iscrizione in Ordini o Collegi o in albi, registri ed elenchi tenuti da amministrazioni o enti pubblici, se la iscrizione è subordinata al possesso di qualifiche professionali o all’accertamento delle specifiche professionalità; 2) i rapporti di lavoro subordinato, se l’accesso ai medesimi è subordinato, da disposizioni legislative o regolamentari, al possesso di qualifiche professionali; 3) l’attività esercitata con l’impiego di un titolo professionale il cui uso è riservato a chi possiede una qualifica professionale; 4) le attività attinenti al settore sanitario nei casi in cui il possesso di una qualifica professionale è condizione determinante ai fini della retribuzione delle relative prestazioni o della ammissione al rimborso; 5) le professioni esercitate dai membri di un’associazione o di un organismo di cui all’Allegato I.

In base al D.Lgs. 206 i regimi che regolano i “riconoscimenti professionali” sono di tre tipi:  un regime generale di riconoscimento (artt. 18-26) non automatico ma basato sul confronto tra i percorsi formativo – professionali previsti nei due Stati e la possibilità, in caso di “differenza sostanziale” tra i diversi livelli di qualifica (previsti dall’art. 19 del decreto), di condizionare il riconoscimento a misure compensative (prova attitudinale o tirocinio di adattamento di durata non superiore a tre anni). Condizioni del riconoscimento sono: che il titolo (o l’attestato) sia stato rilasciato da una autorità competente; che detto titolo certifichi il possesso di un livello di qualifica almeno equivalente al livello immediatamente precedente a quello previsto dalla normativa nazionale; l’accesso alla professione regolamentata in Italia può, inoltre, essere anche riconosciuto se il richiedente, in possesso dei requisiti sopracitati, abbia esercitato a tempo pieno per due anni nel corso dei precedenti dieci;  un regime basato sull’esperienza professionale maturata nello Stato membro d’origine (artt. 27-30). Il sistema si applica ad attività di tipo artigianale, commerciale o industriale specificatamente indicate nell’Allegato IV del decreto e prevede un riconoscimento automatico se sono rispettate le condizioni espressamente previste per le singole categorie professionali (si prendono in considerazione elementi quali la durata, il tipo di esperienza professionale, come lavoratore autonomo o dipendente, la formazione pregressa).   un regime di riconoscimento automatico dei titoli di formazione perun limitato numero di professioni settoriali sulla base dell’avvenuta armonizzazione delle condizioni minime di formazione (si tratta delle 7 professioni elencate all’allegato V al decreto legislativo: medico, infermiere, odontoiatra, veterinario, ostetrica, farmacista e architetto) tale regime prevede che l’autorità competente dello Stato membro ospitante non può richiedere documenti che specifichino la formazione acquisita.

Alla disciplina comune e a quella specifica relativa alle singole professioni per le quali è previsto il riconoscimento automatico è dedicata la seconda parte del D.Lgs. 206 (artt. 31-58). A tale automatismo sono previste specifiche deroghe che giustificano il ricorso al regime generale di riconoscimento; tali deroghe sono possibili, ai sensi dell’art. 10 della direttiva, anche in presenza di una ragione specifica ed eccezionale per cui i richiedenti non soddisfano le condizioni generali del riconoscimento (tale ultima previsione dell’art. 10 non è tuttavia stata recepita nell’art. 18 del D.Lgs. 206);In attuazione della direttiva, il D.Lgs. 206/2007 prevede una stretta collaborazione amministrativa – con scambio di informazioni anche pervia telematica – tra le autorità competenti dello Stato membro ospitante e di quello d’origine (art. 8).

Tale collaborazione avviene anche attraverso:

 la designazione del Dipartimento per le politiche europee come Coordinatore nazionale presso la Commissione europea – che dovrà promuovere l’applicazione uniforme della direttiva da parte delle autorità competenti – e come Punto nazionale di contatto per le informazioni e l’assistenza sui riconoscimenti previsti dal decreto legislativo;

 la creazione di piattaforme comuni ovvero l’insieme dei criteri delle qualifiche professionali in grado di colmare le differenze sostanziali individuate tra i requisiti in materia di formazione esistenti nei vari Stati membri per una determinata professione;  lo scambio di informazioni, anche per via telematica, tra le autorità amministrative competenti (per l’Italia i diversi ministeri) che possono riguardare anche le azioni disciplinari e le sanzioni penali adottate nei riguardi del professionista oggetto di specifica procedura di riconoscimento (gli ordini e collegi professionali competenti, se esistenti, devono dare comunicazione all’autorità di tutte le sanzioni che incidono sull’esercizio della professione).

 la partecipazione dei rappresentanti degli Stati membri nel Comitato per il riconoscimento delle qualifiche professionali.

Le iniziative dell’UE in materia di qualifiche professionali 

Per agevolare il riconoscimento delle qualifiche professionali nell’UE la Commissione europea ha proceduto alla creazione di:

 una banca dati delle professioni regolamentate coperte dalla direttiva 2005/36/CE; che contiene informazioni su quali professioni sono regolamentate in quali Paesi e da quali autorità, sui titoli che sulle qualifiche; la banca dati a breve dovrebbe contenere anche la descrizione puntuale dei requisiti di accesso e della formazione richiesta;

uno strumento elettronico multilingue (cd. I.M.I., Internal Market Information) utilizzato per lo scambio di informazioni tra le autorità competenti dei 28 Stati membri dell’UE in relazione a tutte le direttive del mercato interno; il sistema è stato sviluppato dalla Commissione europea in collaborazione con gli Stati membri (secondo quanto stabilito dal Regolamento 1024/2012/UE) per rendere. Più facile e più rapida la cooperazione amministrativa tra autorità competenti degli Stati membri, contribuendo in tal modo ad accelerare le procedure e riducendo i costi dovuti alle attese.

 un gruppo dei coordinatori nazionali, al quale partecipa anche un rappresentante della Commissione europea.

Il gruppo di coordinatori per il riconoscimento delle qualifiche professionali è stato istituito con decisione della Commissione europea del 19 marzo 2007. Il gruppo, presieduto dalla Commissione, è incaricato di svolgere le seguenti funzioni:

a) avviare una cooperazione fra le autorità degli Stati membri e la Commissione sulle questioni relative al riconoscimento delle qualifiche professionali;

b) sorvegliare l’evoluzione delle politiche che presentano un impatto sulle professioni regolamentate per quanto riguarda le qualifiche; c) facilitare l’attuazione della direttiva 2005/36/CE, in particolare tramite l’elaborazione di documenti di interesse comune, ad esempio orientamenti interpretativi;

d) realizzare uno scambio di esperienze e buone pratiche nei settori di cui ai punti precedenti.

La revisione del quadro normativo europeo sul riconoscimento delle qualifiche: la nuova direttiva 2013/55/CE

Nell’ambito delle iniziative volte a completare e rafforzare il mercato interno, la direttiva 2013/55/CE, di modifica della direttiva 2005/36/CE, ha introdotto numerose modifiche alla disciplina sul riconoscimento delle qualifiche professionali nell’Unione.

La direttiva discende dalla necessità – emersa da valutazioni effettuate dalla Commissione europea sullo stato di attuazione della direttiva 2005/36/CE – di rimuovere gli ostacoli ancora esistenti in materia di riconoscimento delle qualifiche professionali quali la complessità delle prassi e le irregolarità amministrative, i ritardi nelle procedure di riconoscimento e le resistenze corporative a livello nazionale. Tra i punti più qualificanti della nuova disciplina si segnalano:

 l’introduzione di una tessera professionale europea (E.P.C.) volta a facilitare il riconoscimento delle qualifiche professionali conseguite nell’UE; inizialmente, l’EPC sarà disponibile solo per alcune professioni selezionate che presentano una elevata mobilità e che figurano tra quelle per le quali è stato manifestato interesse;

L’ACCESSO PARZIALE ovvero la possibilità per il professionista di esercitare in uno Stato membro l’attività solo nel settore per cui è pienamente qualificato nello Stato di origine, evitando l’obbligo di misure compensative;

 un migliore accesso alle informazioni relative al riconoscimento delle qualifiche professionali mediante il ricorso a punti di contatto unici istituiti nel quadro della direttiva 2006/123/CE sui servizi nel mercato interno;

 il riconoscimento del tirocinio professionale svolto in altro Stato membro, a condizione che si attenga alle specifiche linee guida pubblicate per ogni professione;

il superamento della comparazione dei soli livelli di qualifica ai fini del riconoscimento professionale (andranno considerate anche le conoscenze e le abilità acquisite con l’esperienza professionale o mediante formazione permanente);

 la trasformazione dei punti di contatto nazionali in centri di  assistenza, con la creazione di sportelli fisici che forniscono informazione, consulenza e assistenza ai cittadini;

la previsione di un processo di trasparenza con il quale ogni stato membro dovrà esaminare la propria disciplina sulle professioni per verificare che non sia discriminatoria.

Secondo la direttiva epigrafata (1) “Ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, lettera c) del trattato, l’eliminazione degli ostacoli alla libera circolazione di persone e servizi tra Stati membri è uno degli obiettivi della Comunità. Per i cittadini degli Stati membri, essa comporta, tra l’altro, la facoltà di esercitare, come lavoratore autonomo o subordinato, una professione in uno Stato membro diverso da quello in cui hanno acquisito la relativa qualifica professionale. Inoltre, l’articolo 47, paragrafo 1 del trattato prevede l’approvazione di direttive miranti al reciproco riconoscimento di diplomi, certificati e altri titoli”.

L’articolo 3 è disposizione di coordinamento, che integra la formulazione dell’art. 3, comma 2, del D.Lgs. 206 relativo agli effetti del riconoscimento (art. 1, punto 4, dir 2013/55).

Tale principale effetto è quello di accedere, se in possesso dei requisiti previsti, alla professione corrispondente per la i cittadini membri dell’Unione sono qualificati nello Stato membro d’origine e di esercitarla alle stesse condizioni previste dall’ordinamento italiano (art. 3, comma 1, del decreto).

Ai fini del riconoscimento, la professione che l’interessato eserciterà sul territorio italiano sarà quella per la quale è qualificato nel proprio stato membro d’origine, se le attività sono comparabili (art. 3, comma 2, del decreto).la disposizione fa salva, al citato comma 2, la disciplina dell’accesso parziale ad un’attività professionale.

L’accesso parziale ad una attività professionale è concesso se ricorrono, simultaneamente, le seguenti condizioni:

a) il professionista è pienamente qualificato per esercitare nello Stato membro d’origine l’attività professionale per la quale si chiede un accesso parziale;

b) vi sia l’impossibilità di imporre misure compensative che risulterebbero troppo onerose (per le eccessive differenze tra la professione esercitata nello Stato membro e quella regolamentata in Italia);

c) l’attività professionale può essere oggettivamente separata da altre attività che rientrano nella professione regolamentata in Italia.

Il considerando 7 della direttiva 2013/55 rileva, sul punto, che “vi sono casi in cui, nello Stato membro ospitante, le attività interessate fanno parte di una professione con un ambito di attività più esteso che nello Stato membro di origine.

Se le differenze tra ambiti di attività sono così vaste da esigere che il professionista segua un programma completo di istruzione e formazione per compensare le lacune e se il professionista stesso ne fa richiesta, in presenza di tali circostanze particolari lo Stato membro ospitante dovrebbe garantire un accesso parziale. Ciononostante, qualora vi siano motivi imperativi di interesse generale, quali definiti dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nella giurisprudenza concernente gli articoli 49 e 56 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) e suscettibili di ulteriori evoluzioni, uno Stato

membro dovrebbe poter rifiutare tale accesso parziale. Questo può essere il caso delle professioni sanitarie se hanno implicazioni sulla salute pubblica o sulla sicurezza dei pazienti”.

Il nuovo articolo prevede inoltre il possibile rifiuto all’accesso parziale in presenza di un motivo imperativo di interesse generale, che permette di conseguire l’obiettivo perseguito (e si limita a quanto necessario per raggiungere tale obiettivo).

I motivi imperativi di interesse generalesono quelli riconosciuti come tali dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea.

Il titolo di studio conseguito dai ricorrenti è idoneo a conferire un titolo suscettibile di riconoscimento in Italia, secondo una lettura costituzionalmente orientata alla luce del Principio di uguaglianza.

IL COMPORTAMENTO DELL’AMMINSITRAZIONE ALLA LUCE DELLA NORMATIVA E DELLA GIURISPRUDENZA COMUNITARIA.

Il comportamento tenuto dall’amministrazione non trova fondamento né nella legislazione italiana di riferimento, né nella disciplina comunitaria.

Ed infatti, a fronte della determinazione di un obbligo incombente sugli Stati membri, così come determinato in una Direttiva, lo Stato membro non può adottare comportamenti idonei a pregiudicare la comune realizzazione degli obiettivi previsti dal diritto comunitario addirittura nemmeno durante il periodo entro il quale la Direttiva deve essere recepita.

Secondo una giurisprudenza consolidata, “in mancanza di armonizzazione delle condizioni di accesso ad una professione, gli Stati membri possono definire le conoscenze e le qualifiche necessarie all’esercizio di tale professione e richiedere la presentazione di un diploma che attesti il possesso di queste conoscenze e di queste qualifiche (v. sentenze 15 ottobre 1987, causa 222/86, Heylens e a., Racc. pag. 4097, punto 10; 7 maggio 1991, causa C-340/89, Vlassopoulou, Racc. pag. I-2357, punto 9, nonché 7 maggio 1992, causa C-104/91, Aguirre Borrell e a., Racc. pag. 1-3003,punto 7)” 178

Tuttavia, in questo caso, secondo la sentenza Morgenbesser (Sentenza della Corte del 13 Novembre 2003, Morgenbesser, C-313/01, ECLI:EU:C:2003:612, punto 67) “Ne deriva che spetta all’autorità competente verificare, conformemente ai principi sanciti dalla Corte nelle citate sentenze Vlassopoulou e Fernandez de Bobadilla, se, e in quale misura, si debba ritenere che le conoscenze attestate dal diploma rilasciato in un altro Stato membro e le qualifiche o l’esperienza professionale ottenute in quest’ultimo, nonché l’esperienza ottenuta nello Stato membro in cui il candidato chiede di essere iscritto, soddisfino, anche parzialmente, le condizioni richieste per accedere all’attività di cui trattasi.”

Questa procedura di valutazione deve consentire alle autorità dello Stato membro ospitante di assicurarsi obiettivamente che il diploma straniero attesti il possesso, da parte del suo titolare, di conoscenze e di qualifiche, se non identiche, quantomeno equivalenti a quelle attestate dal diploma nazionale. Tale valutazione dell’equivalenza del diploma straniero deve effettuarsi esclusivamente in considerazione del livello delle conoscenze e delle qualifiche che questo diploma, tenuto conto della natura e della durata degli studi e della formazione pratica di cui attesta il compimento, consente di presumere in possesso del titolare (cfr. sentenza della Corte del 15 ottobre 1987, Unectef/Heylens, C-222/86, ECLI:EU:C:1987:442, punto 13).

Tanto è quanto, con riguardo al caso di specie, è stato comunicato proprio dalla Commissione Europea nella nota in data 22/01/2019 in circostanza analoga alla presente nella risposta alla Denuncia relativa ai titoli di studio abilitanti all’insegnamento conseguiti da cittadini italiani in Romania – CHAP(2018)02140 (Inoltre la firmataria della Nota è la stessa ad aver sottoscritto i decreti di riconoscimento nel 2016, inerenti al medesimo percorso “Programului de studii psichopedagogice, Nivelul I e Nivelul II”.
(a titolo di esempio. AOODPIT prot. N. 69 dell’08.02.2016)

Sulla base delle rappresentate premesse, infatti, la Commissione Europea ha concluso che “alla luce di quanto sopra, se le autorità italiane considerano gli italiani che hanno conseguito una formazione come insegnanti in un altro Stato membro dell’UE non qualificati per accedere direttamente alla professione stessa, dovrebbero comunque valutare le loro conoscenze e qualifiche acquisite. Questa valutazione, dovrebbe consentire agli studenti italiani di partecipare, nella categoria pertinente, al concorso per accedere al “percorso FIT”.

Infatti, secondo le informazioni contenute nel Decreto legislativo n .59 del 13 Aprile 2017, la possibilità di accedere a questa formazione non significa accedere direttamente alla professione.

Infine, l’esame della corrispondenza tra le conoscenze e le qualifiche attestate dal diploma straniero e quelle richieste dalla normativa dello Stato membro ospitante deve essere effettuato dalle autorità nazionali secondo un procedimento che sia conforme ai requisiti posti dal diritto dell’UE a proposito della tutela effettiva dei diritti fondamentali conferiti dal trattato ai cittadini dell’Unione. Ne consegue che ogni decisione presa dalle autorità nazionali in relazione all’esame deve essere soggetta ad un gravame di natura giurisdizionale che consente di verificarne la legittimità rispetto al diritto dell’UE e che l’ interessato deve poter venire a conoscenza dei motivi che stanno alla base della decisione adottata nei suoi confronti ( cfr. sentenza in Unectef/Heylens, già citata, punto 17, e in  Vlassopoulou, già citata, punto 22).

La giurisprudenza della CGE ha chiarito che uno Stato membro non può negare il riconoscimento di un titolo professionale per il solo fatto che il richiedente non ha effettuato il tirocinio pratico nello Stato membro di destinazione (Causa C-118/2009) e che il diritto dei cittadini di scegliere, da un lato lo Stato membro nel quale desiderano acquisire il proprio titolo professionale e, dall’altro, quello in cui hanno intenzione di esercitare la loro professione è interente l’esercizio, in un mercato unico, delle libertà garantite dai Trattati (Commissione c. Spagna, Causa C-286/2006).

Sulla scorta dei principi di diritto direttamente e chiaramente desumibili dalla richiamata giurisprudenza comunitaria così come trasposti nella normativa di diritto interno, quand’anche lo Stato italiano, e per esso il Ministero odiernamente convenuto, ritenesse di non essere vincolato dalla procedura di cui alla direttiva 36/2005/CE non possono, in ogni caso, violare i principi sanciti nel Trattato in materia di libertà di stabilimento o di libera circolazione dei lavoratori.

Se, infatti, le norme nazionali non tengono conto delle conoscenze e delle qualifiche già acquisite da un cittadino di un altro Stato membro al di fuori dello Stato ospitante, l’esercizio delle libertà di stabilimento e di circolazione è ostacolato.

Il MIUR dunque è incorso in una violazione di tali principi per non aver in alcun modo valutato il titolo di studio conseguito in Romania dai docenti che ne fossero in possesso.

Tale omissione di valutazione si è tradotta in una violazione delle garanzie procedimentali proprie del procedimento amministrativo in generale, così come previste dalla Legge 241/1990, in quanto il provvedimento di rigetto non è stato preceduto dal compimento di alcuna attività istruttoria avente ad oggetto la natura del titolo conseguito in ossequio ai principi sull’accesso parziale che trovano attuazione nella direttiva 36/2005/CE come modificata dalla direttiva 55/2013/CE.

Neppure, in ogni caso, il Miur ha indicato delle misure compensative idonee a consentire e perfezionare l’accesso alla professione di docente.

La direttiva 55/2013/CE ha inteso istituire una serie di meccanismi, organi e procedure proprio al fine di migliorare le difficoltà di armonizzazione dei titoli di studio e di formazione degli Stati membri dell’UE intervenendo proprio sul momento istruttorio dei procedimenti amministrativi finalizzati al riconoscimento e/o alla qualificazione dei titoli conseguiti in altri Stati membri dell’UE attraverso la creazione di un sistema elettronico multilingue nonché di un coordinamento tra gli Stati membri in materia di conoscenza della tipologia dei titoli propri di ciascuno Stato.

E’ pertanto lesivo dei principi di trasparenza e di adeguata istruttoria sottesa all’istituzione di tali meccanismi di armonizzazione il comportamento tenuto dallo Stato Italiano, e dunque dal Miur, di adottare un avviso quale quello pubblicato in data 2/4/2019, nonché provvedimenti di rigetto delle istanze di riconoscimento dei titoli conseguiti in Romania, senza avvalersi di alcuno di questi strumenti per valutare la natura e i contenuti del titolo conseguito dagli istanti e la scelta di recepire nel predetto documento taluni stralci di documenti rilasciati dalle competenti autorità rumene senza neppure indicarne l’esatta denominazione, provenienza e le modalità con le quali i testi siano stati tradotti.

Pare necessario, in tal senso, evidenziare che una corretta traduzione risulta di fondamentale importanza per comprendere il reale significato di un testo normativo proprio di un altro Stato membro in quanto esso va anche interpretato sulla base del contesto normativo di riferimento sicché una traduzione errata e/o imperfetta può concretarsi in una diversità concettuale pregiudizievole rispetto all’erroneo significato attribuito anche a singoli termini. 

Nel caso sottoposto all’attenzione del Collegio è poi evidente, alla luce della documentazione depositata dal ricorrente a corredo dell’istanza di riconoscimento del titolo conseguito in Romania che il predetto titolo è certamente abilitante all’insegnamento in Romania, in quanto il titolo di studio è stato ritenuto idoneo dalla competente autorità ad accedere al corso di formazione psicopedagogica sicché in Romania non vi è alcuna differenza tra un cittadino rumeno diplomato e/o laureato in Romania  e un cittadino italiano laureatosi in Italia che abbia potuto accedere al corso di formazione psicopedagogica.

A parità di condizioni di fatto l’autorità rumena, infatti, dichiara unicamente di non poter rilasciare il certificato di conformità in favore dei docenti che pure hanno conseguito un percorso di formazione psicopedagogico in Romania solo perché egli non si è laureato e/o diplomato in Romania in quanto in Romania il diploma e/o la laurea di per sé sono abilitanti.

Dal punto di vista sostanziale, l’ammissione al Corso di formazione psicopedagogica sulla base del titolo di laurea conseguito in Italia è in tutto e per tutto identica a quello di un cittadino rumeno che si sia laureato e/o diplomato in Romania e abbia conseguito il corso di formazione psicopedagogica.

A tale valutazione, il ministero sarebbe potuto giungere se avesse posto in essere una valutazione sul titolo conseguito dal ricorrente alla luce del sistema nazionale di istruzione e formazione, tenuto conto del fatto che i programmi di formazione psicopedagogica non costituiscono livelli di qualifica ma seguono lo sviluppo e la certificazione delle competenze specifiche della professione didattica  consento di valutare il titolo conseguito piuttosto che limitarsi a ritenere che lo stesso non possa essere riconosciuto nell’ordinamento dello Stato italiano.

Se tale riconoscimento non può essere automatico lo Stato italiano ed il Miur hanno l’obbligo giuridico comunitario di comparare mediante un’adeguata analisi ed una necessaria attività istruttoria la qualità del percorso formativo seguito all’estero e del titolo conseguito al fine di valutare le differenze rispetto al meccanismo di abilitazione all’esercizio della professione nello Stato membro disponendo misure compensative e di applicare il principio della salvezza degli effetti parziali (che nl caso di specie, avuto riguardo alle paventate esigenze cautelari hanno riguardato la partecipazione dell’istante alla procedura concorsuale indetta per mezzo del D.G.G. 58/2018, ritenute meritevoli di tutela).

LE DECISIONI DEL CONSIGLIO DI STATO.

Il Consiglio di Stato, infatti, tralasciando un approccio meramente formalistico in favore di un approccio sostanzialistico, fondato sulla valorizzzazione del possesso fattuale dei titoli di studio conseguiti in Romania, ha condotto un’analisi delle vigenti disposizioni comunitarie andando ben oltre l’errore di mera prospettazione formalistica della fattispecie in cui possa essere incorso il Ministero rumeno richiamando le autorità amministrative italiane preposte all’esercizio dell’attività di riconoscimento ad ispirarsi a criteri di congruità nella valutazione delle formazioni conseguite all’estero “nei termini chiariti dalla giurisprudenza europea”.

I principi enunciati dalla giurisprudenza comunitaria divengono, dunque, imperativi e cogenti rispetto alla determinazione dei contenuti della volontà dell’amministrazione perché espressivi di preminenti interessi generali di diretta derivazione comunitaria.

L’argomento formalistico opposto dal Ministero dell’Istruzione (l’omesso rilascio di una espressa dichiarazione di conformità del titolo alla direttiva 2005/36/CE) non può, infatti, ad avviso del Collegio costituire una condizione ostativa alla valutazione della certificazione rilasciata sul presupposto (1) del titolo conseguito, (2) del titolo di accesso posseduto quale presupposto per accedere alla formazione di insegnamento e (3) della sua idoneità nel territorio rumeno di consentire l’accesso all’insegnamento, avuto riguardo, peraltro alla “durata complessiva, il livello e la qualità delle formazioni a tempo parziale nonsiano inferiori a quelli delle formazioni continue a tempo pieno” (cfr. ad es. Cge n. 675 del 2018).

 “L’eventuale errore delle autorità rumene sul punto non può costituire ragione e vincolo per la decisione amministrativa italiana; ciò, in particolare, nel caso di specie, laddove il titolo di studio reputato insufficiente dalle Autorità di altro Stato membro è la laurea conseguita presso una università italiana, – Piuttosto, le Autorità nazionali sono chiamate a valutare la congruità delle formazioni conseguite all’estero, nei termini chiariti dalla giurisprudenza europea e sopra richiamati”. Tanto che, ad avviso del Collegio, “a fronte della chiarezza dei principi e delle norme europee rilevanti in materia, non occorre sottoporre la questione alla Corte di giustizia in termini di rinvio pregiudiziale”.

Il Collegio si limita, infatti, a rammentare ilprincipio a mente del quale l’articolo 45 TFUE dev’essere interpretato nel senso che esso osta a che la p.a., quando esamina una domanda di partecipazione proposta da un cittadino di tale Stato membro, subordini tale partecipazione al possesso dei diplomi richiesti dalla normativa di detto Stato membro o al riconoscimento dell’equipollenza accademica di un diploma di master rilasciato dall’università di un altro Stato membro, senza prendere in considerazione l’insieme dei diplomi, certificati e altri titoli nonché l’esperienza professionale pertinente dell’interessato, effettuando un confronto tra le qualifiche professionali attestate da questi ultimi e quelle richieste da detta normativa (cfr. ad es. Corte giustizia UE sez. II, 06/10/2015, n.298).In tale ottica, le norme della direttiva 2005/36/CE , relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali, devono essere interpretate nel senso che impongono ad uno Stato membro di riconoscere in modo automatico i titoli di formazione previsti da tale direttiva e rilasciati in un altro Stato membro al termine di formazioni in parte concomitanti, a condizione che “la durata complessiva, il livello e la qualità delle formazioni a tempo parziale non siano inferiori a quelli delle formazioni continue a tempo pieno” (cfr. più di recente Corte giustizia UE , sez. III, 06/12/2018 , n. 675).

In base all’art. 13 della direttiva 2013/55/Ue, prosegue il Collegio, che ha modificato la predetta direttiva 2005/36, rubricato condizioni di riconoscimento: “1. Se, in uno Stato membro ospitante, l’accesso a una professione regolamentata o il suo esercizio sono subordinati al possesso di determinate qualifiche professionali, l’autorità competente di tale Stato membro permette l’accesso alla professione e ne consente l’esercizio, alle stesse condizioni previste per i suoi cittadini, ai richiedenti in possesso dell’attestato di competenza o del titolo di formazione di cui all’articolo 11, prescritto da un altro Stato membro per accedere alla stessa professione ed esercitarla sul suo territorio. Gli attestati di competenza o i titoli di formazione sono rilasciati da un’autoritàcompetente di uno Stato membro, designata nel rispetto delle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative di detto Stato membro”. A propria volta il successivo comma 3 statuisce: “3. Lo Stato membro ospitante accetta il livello attestato ai sensi dell’articolo 11 dallo Stato membro di origine nonché il certificato mediante il quale lo Stato membro di origine attesta che la formazione e l’istruzione regolamentata o la formazione professionale con una struttura particolare di cui all’articolo 11, lettera c), punto ii), è di livello equivalente a quello previsto all’articolo 11, lettera c), punto i).”

Sulla scorta di tali premesse, accertato e non contestato dal Ministero il possesso del titolo di studio richiesto, la laurea conseguita in Italia (ex sé rilevante, senza necessità di mutuo riconoscimento reciproco), sia della qualificazione abilitante all’insegnamento, conseguita presso un paese europeo, il Collegio ha ritenuto non sussistere i presupposti per il contestato diniego specificando che “lungi dal al poter valorizzare l’erronea interpretazione delle autorità rumene, la p.a. odierna appellata è chiamata unicamente alla valutazione indicata dalla giurisprudenza appena richiamata, cioè alla verifica che, per il rilascio del titolo di formazione ottenuto in un altro Stato membro al termine di formazioni in parte concomitanti, la durata complessiva, il livello e la qualità delle formazioni a tempo parziale non siano inferiori a quelli delle

formazioni continue a tempo pieno” (Consiglio di Stato, sez. VI, 17 febbraio 2020, n. 1198; cfr. anche sez. VI, 2 marzo 2020, n. 1521; 20 aprile 2020, n. 2495; 8 luglio 2020, n. 4380).

Aggiunge, il Collegio che i provvedimenti di diniego così determinati sono senz’altro illegittimi per carenza di istruttoria atteso che i titoli posseduti non sono stati oggetto di alcuno specifico vaglio da parte dell’amministrazione.

Sulla scorta di tali determinazioni accoglie l’appello disponendo l’annullamento dei provvedimenti di rigetto impugnati mediante il ricorso proposto in primo grado.

Le sentenze, a differenza delle pronunce precedenti (nn., 5173/2020 e 5174/2020) contengono un annullamento secco degli atti impugnati che costringe entro i margini della motivazione della sentenza l’eventuale potere riedittivo dell’amministrazione condizionandone, in ogni modo, la finalità e l’esito nonché la necessaria ottemperanza al giudicato condizionata, anche in sede giudiziale, dal quadro processuale che ha costituito il substrato fattuale e giuridico della sentenza e dall’immodificabile accertamento compiuto accertamento sulla base della sequenza “petitumcausa petendi-motivi-decisum” (C.d.S., sez. V, 9 maggio 2001, n. 2607; sez. IV, 9 gennaio 2001, n. 49; 28 dicembre 1999, n. 1964).

Anna Chiara Vimborsati