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Procedimenti disciplinari nei confronti di docenti che offendono sui Social

Di Pietro Siviglia

Il caso

Il ricorrente, docente precario della provincia di Reggio Calabria, si rivolgeva al Giudice del Lavoro di Palmi per ottenere l’annullamento del provvedimento della sanzione disciplinare della sospensione dall’insegnamento per n. 20 giorni, con privazione della retribuzione, irrogatagli dall’Ufficio Competente per i Procedimenti Disciplinari per avere pubblicato post offensivi sul noto social media Facebook relativamente ad altra docente che rivestiva, all’epoca, la carica di Ministro dell’Istruzione.

Nell’ambito del procedimento disciplinare risultava provato, in quanto ammesso dallo stesso docente nell’ambito dell’istruttoria procedimentale, che quest’ultimo aveva pubblicato, quotidianamente e per lungo tempo, post offensivi in merito all’immagine ed alla reputazione della docente, allora Ministro dell’Istruzione in carica, apostrofandola con epiteti quali “fitusa inconsistente, cognitiva-inetta-ignorante, incompetente-capradeficiente- bestia animale-cazzara” e giungendo a proferire nei di lei riguardi numerose offese ed ingiurie.

La difesa del ricorrente, solo in fase giudiziaria, contestava genericamente la paternità dei post riconducendoli, comunque, al generale diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero ed alla libertà di critica del lavoratore. Contestava, inoltre, l’irregolarità amministrativa del procedimento disciplinare in quanto la fase istruttoria che ne aveva preceduto l’avvio era stata condotta dal Dirigente Scolastico e non dall’Ufficio Competente per i Procedimenti disciplinari.

Il Ministero dell’Istruzione si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto della domanda ritenendo, sulla base dell’istruttoria compiuta dal Dirigente Scolastico provati gli addebiti la cui sanzionabilità rientrava nelle competenze dell’UPD che correttamente aveva proceduto alla contestazione dell’addebito, all’audizione delle difese del docente e, infine, all’irrogazione della sanzione.

La decisione

Il Giudice, anzitutto, respinge le pretese irregolarità procedimentali costituite dall’essere stata condotta l’istruttoria dal Dirigente Scolastico e non dall’organo che ha emesso la sanzione, così argomentando:

La condotta della Dirigente scolastica appare pertanto formalmente legittima, in quanto conforme alla disciplina prevista per il procedimento disciplinare, secondo quanto codificato dall’art. 55 bis del D. Lgs. 165/2001, che in materia di “competenza” prevede un’architettura fondata sulla bipartizione tra “sanzioni di minore” e “sanzioni di maggiore” gravità – ex combinato disposto dai commi 1 e 4 del citato articolo 55 bis-.

Emerge pertanto che la Dirigente scolastica, all’esito dell’istruttoria, identificato l’autore della condotta in analisi e valutata la possibile gravità dei fatti, riteneva che la possibile sanzione irrogabile a definizione del procedimento disciplinare, in caso di intervenuto accertamento di responsabilità del dipendente, esulasse dalla propria sfera di competenza e, pertanto correttamente provvedeva alla trasmissione degli atti all’UPD in ottemperanza di quanto prescritto dall’art. 4 del già citato articolo 55 bis.

Si osserva inoltre come la dirigenza scolastica dovesse necessariamente interloquire con il docente, trattandosi di fatti specifici ab origine ascritti, in esclusiva, alla di lui condotta.”.

Il Giudice palmese, ritiene, quindi, provato il fatto storico oggetto di addebito e la sua disciplinare rilevanza anche in merito alla figura di educatore che inerisce la funzione docente:

A questo punto risulta importante sottolineare come la centralità della figura del docente nel contesto sociale, per la formazione e lo sviluppo dei propri alunni determini la rilevanza di ogni comportamento tenuto dallo stesso anche al di fuori dal contesto prettamente scolastico.

In particolare, è possibile attribuire se possibile, ancora maggiore gravità a quelle condotte poste in essere sui social network, dove le stesse sono facilmente accessibili e visibili agli alunni (potenzialmente quelli rimessi alla cura dell’insegnante, intesa la predetta locuzione in termini di omnicomprensività sotto il profilo della vigilanza, della didattica e dell’educazione per quanto di pertinenza alla figura istituzionale del docente).

Il ruolo di “educatore” non può essere di certo ricondotto e/o circoscritto alla mera durata temporale della prestazione lavorativa; il che vale a dire – anche in aderenza al codice di comportamento dei dipendenti pubblici – che la condotta del docente deve risultare irreprensibile anche al di fuori dello stretto contesto lavorativo. Ciò assume una maggiore pregnanza per alcune figure professionali, come quella del docente che qui direttamente ci occupa, per l’innegabile ascendente che le condotte poste in essere, genericamente e specificamente intese, con particolare riguardo all’oggetto dei fatti in contestazione, possano avere sotto il profilo dell’apprendimento, formativo ed anche imitativo, nei confronti della sfera dei soggetti, gli alunni, legati al primo oltre il normale tempo-lavoro. Detto aspetto assume una considerazione ancor più rigorosa nella particolare situazione pandemica in atto che ha mutato i processi educativi attraverso un’implementazione della digitalizzazione.”.

Il Giudice rigetta, infine, le argomentazioni della difesa del ricorrente fondate sul diritto di critica del lavoratore così motivando:

il danno patito con la condotta contestata deve ritenersi integrato anche con riferimento all’obbligo di correttezza e fedeltà nei confronti del datore di lavoro di cui all’art. 2105 c.c., che ricomprende nel suo ambito d’applicazione non solo le condotte ivi tipizzate, ma ogni comportamento lesivo del legame fiduciario tra lavoratore e datore di lavoro. E ciò per il tramite del collegamento stabilito in via ermeneutica tra il suddetto obbligo ed il principio di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.

Nel caso che ci occupa le espressioni impiegate possono essere ritenute lesive del vincolo fiduciario caratteristico del rapporto di lavoro, in quanto dotate di indubbia “valenza diffamatoria”.

A nulla, pertanto, vale il richiamo al diritto di critica e alla libertà di pensiero, poiché la condotta posta in essere, e formalmente contestata, deve essere controbilanciata dal danno all’immagine della Pubblica Amministrazione, conseguente al comportamento esplicitato sui social network. A tal riguardo si vuole qui ricordare come in linea generale: “Il comportamento del lavoratore, consistente nella divulgazione di fatti ed accuse, ancorché vere, obiettivamente idonee a ledere l’onore o la reputazione del datore di lavoro, esorbita dal legittimo esercizio del diritto di critica, quale espressione del diritto di libera manifestazione del proprio pensiero, e può configurare un fatto illecito, e quindi anche consentire il recesso del datore di lavoro ove l’illecito stesso risulti incompatibile con l’elemento fiduciario necessario per la prosecuzione del rapporto, qualora si traduca in una condotta che sia imputabile al suo autore a titolo di dolo o di colpa, e che non trovi, per modalità ed ambito delle notizie fornite e dei giudizi formulati, adeguata e proporzionale giustificazione nell’esigenza di tutelare interessi di rilevanza giuridica almeno pari al bene oggetto dell’indicata lesione.” (Cass. Sez. Lavoro. 25 febbraio 1986, n. 1173)

L’esercizio del diritto di critica incontra un limite nella tutela dell’onore, della reputazione e del decoro del datore di lavoro, beni-interessi che costituiscono riflesso di diritti fondamentali della persona tutelati quali valori essenziali della dignità dell’uomo, “sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove svolge la sua personalità” (art. 2 Cost.). La critica manifestata dal lavoratore all’indirizzo del datore di lavoro può, dunque, trasformarsi da esercizio lecito di un diritto, in una condotta astrattamente idonea a configurare un illecito disciplinare, laddove superi i limiti posti a presidio della dignità della persona umana, così come predeterminati dal diritto vivente.

In merito alla supposta violazione della prívacy, all’acquisizione illegittima di post privati ed inaccessibili al pubblico ed alla violazione dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, dedotta da parte ricorrente, più volte la giurisprudenza (Cass. sezione Lavoro, 27 aprile 2018 n. 10280) è intervenuta evidenziando che l’uso della rete e dei social media abbia la “potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, posto che il rapporto interpersonale, proprio per il mezzo utilizzato, assume un profilo allargato (…) ai fini di una costante socializzazione” e che detto uso costituisca pertanto mezzo idoneo “a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica”, così integrando – qualora siano identificabili, anche per relationem, i soggetti destinatari del commento – il reato di diffamazione. Pertanto, a nulla vale l’eccezione secondo la quale, nel caso in analisi, siano stati avanzati dubbi sulla giustificabilità dell’esercizio del potere disciplinare atteso che il profilo Facebook del docente XXXXXXXA sarebbe stato soggetto a impostazioni restrittive rispetto alla privacy e alla visibilità dei propri post.

È importante sottolineare come la rete sia in maniera costitutiva un veicolo di diffusione potenzialmente illimitato per sua stessa natura, in quanto volto ad amplificare la comunicazione e l’interscambio sociale ben al di là degli eventuali soggetti eventualmente ammessi nella cerchia di amici e conoscenti autorizzati ad accedere ai contenuti di un determinato utente.

Fermo restando, infatti, quanto stabilito all’articolo 8, St. Lav. (divieto di indagine sulle opinioni dei lavoratori o su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale) e di ogni altra attività valutativa a carattere potenzialmente discriminatorio o invasivo della sfera personale, nel caso di specie l’amministrazione scolastica si è trovata nella condizione di ricevere– in modo anche sostanzialmente passivo –contenuti che l’autore aveva diffuso in precedenza, favorendone la conoscibilità.

Alla luce di tutto quanto esposto fin ora, deve ritenersi provata la piena legittimità della sanzione disciplinare”.

La decisione in commento, sul solco di ampia e variegata giurisprudenza in materia (ex multis: Corte d’Appello Torino, Sez. lavoro, Sent., 06/04/2022, n. 145), ammonisce ancora una volta i docenti, ormai fin troppo “social”, ricordano loro come la figura di educatore che essi rivestono comporti, necessariamente, che la condotta di essi debba risultare irreprensibile anche al di fuori dello stretto contesto lavorativo e che il tanto sbandierato diritto di critica incontra un limite nella tutela costituzionale dell’onore, della reputazione e del decoro del datore di lavoro.